Ci sono persone che è impossibile pensare che non vedremo più. Forse perché legate indissolubilmente ad alcune delle più belle stagioni della nostra vita, a quel tempo dove sognare e costruire era tutt’una cosa, quando le ore infinite di una giornata si consumavano tra cazzeggio e cose serie, cementando rapporti che sarebbero divenuti immortali. Impossibile pensarti lassù, perché sarebbe ammettere che alla cassa dell’infinito si lascia un piccolo pezzetto di noi. Poi, quando se ne va il capobanda la storia è ancora più complicata.
Beppe D’Amico continuerà a vivere nei nostri ricordi, non c’è più quella rassicurante certezza del suo sorriso che ci riportava inevitabilmente in via Matteo Dominici, officina irripetibile di artigiani di una Tv che avrebbe successo ancora adesso tanto era avanti rispetto alla concorrenza, bottega di sarti che sapevano come cucire vestiti di gran moda con tessuti da niente, solisti che accettavano di lasciare nei cassetti qualcosa di loro per fare funzionare la band.
Beppe era il quinto Beatles, quello che non vedevi, ma l’unico capace di fare funzionare la macchina, di darle carburante, il collante di tanti capricciosi innamorati di se stessi ma che riconoscevano nelle sue parole quella venatura autorevole che smorzava ogni tensione. Tra noi c’era un rito segreto, almeno quello che io ritenevo segreto perché in realtà di quel segreto molti ne erano a conoscenza. Alle 19 al bar di piazzetta delle Magnolie – dove ci vedeva un popolo – si parlava della sua radio e dei suoi dj. Io non facevo radio, mi riconosceva però una pari dignità nei giudizi, ero un consumatore del suo prodotto e come tale meritavo ascolto. Solo una volta – vado a memoria, – accettò una mia drastica indicazione e quel programma e quel dj non esistettero più nel palinsesto di Radio Cinema. A distanza di anni scoprii che quel rito lo condivideva anche con altri e la cosa non mi sorprese. S’era fatto la sua piccola auditel, un campione con cui confrontarsi.
Cts fu un’altra cosa, sostituì un altro direttore d’avanguardia, Bebo Cammarata, cercó subito di dare un’altra dimensione alla tv, allora non tra le più viste e senza un’identità precisa. Di Io vedo Cts, prolungamento del format di Radio Cinema con Ferruccio Barbera in conduzione invece che sponsor, si è detto di tutto. Vista da dentro è una storia ancora tutta da raccontare, magari in altra occasione. Ne restano tracce nella memoria di almeno tre generazioni. Quando Ferruccio si fermò, toccò andare alla regia di un programma che era alla fase 2. Tradotto: vediamo di farne altra cosa. Non fu una stagione entusiasmante, anche se qualcosa di buono si fece con una doppia conduzione di stile diverso e a caccia di altro pubblico. Fofò Montalbano e Silvyane Corgier portarono la barca in porto e lì l’ancorarono per sempre, perché Beppe sapeva sempre quando fermarsi.
Quella esperienza lo convinse ad affidarmi la scrittura dei testi e la conduzione di una rubrica dell’altro piccolo capolavoro che fu Belvedere, un collage di creatività, un mix tra Odeon e L’altra domenica, i programmi che dettavano la tendenza della più creativa stagione della tv italiana. Sempre Ferruccio in conduzione, assieme a Nadia Martines e poi in ordine sparso Marcello Mandreucci, Nino Muratore, Fofò Montalbano, Riccardo Di Blasi in regia, Franco Nuccio alle inchieste giornalistiche, Gianni Matranga al casting artistico, il sottoscritto che si muoveva un po’ alla Nanni Loy e un po’ sullo stile che sarebbe stato delle Iene tanti anni dopo. Applausi tanti, sponsor a decine, successo certificato, ma Belvedere fu l’inizio della fine. Ferruccio aspirava ad un ruolo di comando, Beppe era insostituibile, la compagnia si separò ma senza traumi.
Il fiuto di D’Amico trovò nuovi sbocchi quando cessò la sua avventura a Cts. Siamo negli anni ’90, i tempi di Opinion Leader, altro format a sua firma che si ispirava a Non solo moda nel linguaggio e nella ricerca del target. Anche in quel caso un altro modo di fare televisione, fu la prima produzione che poteva permettersi di acquistare gli spazi nei palinsesti televisivi e programmare negli orari più appetiti. Lanciò nuovi personaggi e influì ancora una volta nella maniera di essere dei palermitani.
Unico nel suo essere fulcro di uomini e donne che mai avrebbero potuto immaginare di sedersi allo stesso tavolo, Beppe D’Amico non fu santo ma non peccò più di tanti altri che hanno preferito non spingere mai il piede sull’acceleratore, forse temendo che in fondo la macchina non avesse chissà quali prestazioni. Beppe fu coraggioso e con uno sguardo sempre al futuro, pensando istintivamente che il presente fosse il tempo dei caporali e che un buon generale avesse l’obbligo di scrutare l’orizzonte.
Oggi che il nostro comune futuro è affidato ai ricordi, caro Beppe te lo confesso senza vergogna, almeno un giorno da caporale me lo vorrei passare. Magari al solito bar, alle 19, a parlare di radio, d’amore, di vino e di quei tanti cazzoni che hanno fatto belli i nostri giorni