La mattina del 29 luglio del 1983 era calda e torrida come quella di oggi. E come ogni mattina in via Pipitone Federico allo stabile n. 59 il portinaio, il signor Li Sacchi aveva sistemato ogni cosa prima che il Dottor Chinnici scendesse. Anche oggi, un altro portinaio, dopo trentasette anni, pulisce lo stesso marciapiede di fronte, innaffia le piante e rimuove ogni carta e sigaretta lasciata davanti al palazzo, in attesa che la cerimonia commemorativa inizi.
Forse anche il signor Li Sacchi salutava il bottegaio vicino appoggiandosi alla scopa tenuta stretta tra le mani. Per strada c’era, come oggi, poca gente. Le scuole erano chiuse, molti erano fuori città, nelle case di villeggiatura affogate e accalcate su una costa di cemento e mare. Era un momento dell’anno senza memoria, in una città sonnolenta e accaldata per l’appiccicoso scirocco africano. Erano giorni, quelli, in cui tutto si scorda e scivola lento per il sudore sulla sabbia dorata della spiaggia di Mondello.
L’alfetta mandata a prenderlo si fermò davanti al portone, insieme alle auto della scorta. La sirena, i carabinieri, le armi, e la preoccupazione di giovani uomini destinati alla protezione di un uomo che andava a lavorare. Il Dottore uscì dall’ascensore, l’afa non si sentiva, era presto. Il sole dava ancora pochi minuti di tregua. Li Sacchi lo salutó. Il Dottore sarebbe andato in tribunale come ogni giorno, lì dove era impegnato nella lotta alla mafia. Sapeva che stavano preparando un attentato e sapeva che una condanna a morte era stata lanciata contro di lui, ma come ogni mattina Chinnici andava a lavorare. “È una città in cui non si può vivere” diceva, ma non lo accettava. Sapeva che bisognava cambiare, ma da dove iniziare se non dai ragazzi, dalle scuole? Là dove le menti ancora non sono incancrenite dal male, là dove la logica del malaffare è ancora lontana, dove l’idea del guadagno facile, dell’arricchirsi a tutti i costi pena l’emarginazione, diventa un’idea inquinante. Là, diceva, bisogna tagliare le radici della mafia. E questa idea rivoluzionaria non era accettata e compresa, neppure dai suoi colleghi.
Ma lui convinto delle sue idee, perché come ogni rivoluzionario era un sognatore testardo, continuava a parlare ai giovani. “La cultura è libertà” – diceva – che rende consapevoli del proprio destino, cittadini e non schiavi della mafia. Aveva imparato che di quei colleghi non poteva fidarsi, che anche nel tribunale c’era chi si era venduto alla mafia. Quella era una palude, diceva Borsellino, e così appuntava su un diario, ogni cosa, ogni pensiero, ogni incontro. Quando mise su, quello che anni dopo il giudice Caponnetto definì: il Pool antimafia, una struttura mai vista prima, per modalità d’azione e compiti, suggerì ai suoi giovani magistrati di fare lo stesso.
E così fecero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, anche loro iniziarono a scrivere un diario, l’ultimo di Borsellino era un’agenda rossa. A Chinnici piaceva stare tra la gente, fin dagli inizi della sua carriera come pretore a Partanna nel trapanese, “lu preturi” lo chiamavano, gli piaceva parlare con tutti e mostrare come la legge potesse essere umana e ferma. Una carriera senza macchie, destinata a cambiare la lotta alla mafia. Il primo a comprendere la necessità di darsi un’organizzazione contro un sistema che si ramifica in ogni luogo e ambiente dello Stato. Non riduceva la mafia al solo caso giudiziario, ma la trattava come un problema sociale, civile e umano. Ma un boato, il primo a sentirsi in città, arrestò la sua vita insieme a quella dell’appuntato Mario Trapassi, il maresciallo Salvatore Bartolotta e il portinaio Stefano Li Sacchi. Una FIAT 126 imbottita di tritolo venne fatte detonare alle 8:05 del mattino il 29 luglio del 1983.