Leonardo Sciascia e le arti figurative, a Racalmuto una mostra di foto inedite
Ventisette istantanee, tutte in bianco e nero, che raccontano la passione per le immagini e la profonda conoscenza della pittura e della grafica coltivate dallo scrittore di origini agrigentine, del quale ricorre il centenario della nascita
La fotografia come strumento per cristallizzare la realtà, in una sintesi tra passato, presente e futuro che fissa donne e uomini, paesaggi, animali e momenti di vita familiare.
Leonardo Sciascia, tra i massimi intellettuali italiani di tutti i tempi, finissimo autore, fu un grande appassionato di arti figurative, anche se in pochi sono a conoscenza del suo amore per la macchina fotografica.
Una lacuna che, in occasione dell’approssimarsi del centesimo anniversario della nascita dello scrittore originario di Racalmuto, in provincia di Agrigento – che gli diede i natali l’8 gennaio del 1921 – la Fondazione a lui dedicata ha provveduto a colmare con una mostra, intitolata “Leonardo Sciascia e la fotografia“, curata da Diego Mormorio, storico, critico della fotografia e saggista.
Inaugurata lo scorso 19 settembre alla presenza, tra gli altri, del presidente della Camera Roberto Fico presso la sede della Fondazione, in viale della Vittoria nel Comune akragantino, l’esposizione rimarrà visitabile fino al 20 febbraio prossimo : ventisette istantanee in tutto, rigorosamente in bianco e nero, mai rese pubbliche ad oggi, che raccontano la voglia di rinascita della società dopo il secondo conflitto mondiale, tra simmetrie e prospettive che rivelano la grande maestria tecnica dell’autore di Todo Modo e de Il giorno della civetta non solo in tema di immagini, ma anche di pittura e grafica.
Istituita dal Comune di Racalmuto, la Fondazione, ente morale giurdicamente riconosciuto, custodisce al proprio interno una notevole collezione di ritratti di scrittori, quasi tutte le edizioni italiane e straniere delle opere di Sciascia, le lettere ricevute in mezzo secolo d’attività letteraria e circa duemila volumi della sua biblioteca.
Una testimonianza del valore etico di un letterato di forte impatto, illuminista scettico, voltairiano, che rifiutò sempre le logiche del potere e, per questa ragione fu attaccato dai benepensanti avversi al pensiero libero e irregolare, ma soprattuto fu colui che svelò e descrisse per primo l’antropologia della mafia.
“La fotografia è la forma per eccellenza: colta in un attimo del suo fluido significare, del suo non consistere, la vita improvvisamente e per sempre si ferma, si raggela, assume consistenza, identità, significato” : con queste parole Sciascia sintetizzava l’interesse che nutriva per l’arte fotografica, alla quale attribuiva anche un valore predittivo.
“Una forma che dice il passato, conferisce significato al presente, predice l’avvenire”, spiegava a proposito della fotografia, verità momentanea e soprattutto “verità che contraddice altre verità di altri momenti”.
Una tesi riportata nell’introduzione al catalogo della mostra, edito da Mimesis, che ben si sposa a un famoso brano del Gattopardo, il romanzo capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, per il quale “in nessun luogo quanto in Sicilia la verità ha vita breve”.
Con lo stesso acume che attraversa le sue opere letterarie, Sciascia fotografò le sagome di due ciclisti sotto gli archi di pietra pericolanti a Randazzo, in provincia di Catania, alcuni adolescenti immersi nella polvere a Racalmuto, abitazioni scavate nella roccia, il porto di Palermo e la laguna di Venezia, l’architettura di Gaudì a Barcellona; e ancora, la moglie e le figlie, città colte in momenti di quiete, una contadina affaccendata a vendere il latte della sua capra casa per casa.
Un racconto che immortala – con riservatezza e, a tratti, anche pudore – gli anni cinquanta attraverso la raffigurazione di un’umanità che appare distante anni luce dal conteporaneo, eppure non priva di tratti universali che la rendono estremamente vicina a chi osserva, al di là delle coordinate spazio – tempo.
“Il brutto che è passato è quasi bello” aveva detto Sciascia ormai al crepuscolo, in una battuta che descrive in modo folgorante il rimpianto per un mondo afono e privo di colori, ma non asettico, anzi sano e semplice, del quale ognuno rimpiange – o vanamente rincorre- ciò che è stato e mai più sarà.