“La nostra unica speranza è che le cose continuino ad andare bene. Perché altrimenti è chiaro che gli unici a
cui faranno pagare il conto saremo noi”. Il timore confessato con una dose notevole di incazzatura che è
evidente essere lo stadio ultimo della rabbia. Luciano F. (nome di copertura) di professione fa il ristoratore.
Diciamo che la sua non è una vocazione, né una tradizione di famiglia. Un bel giorno, dopo la prima
separazione, s’è trovato quattro soldi in banca frutto di investimenti fortunati e ha assecondato il capriccio
di un amico che in cucina ci sapeva fare quanto basta per reggere il confronto a Palermo.
Ma, come dicono da queste parti, le società si fanno di numero dispari “e tre semu assai”. Lite con l’ormai
ex amico e in mano il timone di un locale che fa subito fortuna. Poi lo vende e ne apre un altro, anche
questo fa fortuna, ma solo per un periodo breve. E così fra alti e bassi passano due decenni a fare e disfare
luoghi dove la gente che conta si sente a suo agio.
Nei giorni di chiusura ha progettato il futuro, quel futuro che oggi si presenta difficile ma con meno
incognite di qualche settimana fa. Eppure sono stati sufficienti 15 giorni per fargli prendere una decisione
che persino chi lo conosce bene definisce inaspettata. “Chiudo, non voglio più avere a che fare con un
locale e con questa città che è perfetta se fai l’impiegato di banca, con i tuoi orari, le ferie retribuite, le 14
mensilità e i week end liberi. Altrimenti è un inferno”.
Cosa è successo sabato scorso? Niente di imprevedibile. Grande affluenza, la solita arroganza di chi ha
quattro soldi in tasca e se ne frega delle regole proprio in un momento in cui regole e controlli sono
all’ordine del giorno. Luciano litiga con i ragazzotti (e viene minacciato), poi arrivano i controlli proprio
quando i nervi sono a fior di pelle e la contestazione davvero irrisoria diventa una condanna. E infine i
social che fanno rimbalzare immagini di quella frotta di indefinibili riversati nelle strade. I provinciali la
chiamano movida, in realtà è il consueto casino organizzato (ci perdoni il maestro Franco Scoglio per
l’improvvida citazione) che massacra la parte sana dell’imprenditoria del centro storico.
Perché a essere trascinati nei gorghi poi sono anche quelli che rispettano le regole e che le fanno rispettare
ai loro avventori. “Non è la sanzione a farmi incazzare, ma la sensazione che preferiscono fare multe
piuttosto che aiutarci a fare prevenzione. Poi apri i social e noi siamo delinquenti e immorali perché
dimentichiamo la tragedia e pensiamo ai fatti nostri. Ho visto i profili di chi commenta, per lo più impiegati
pubblici. Facile fare la morale con lo stipendio che arriva ogni giorno 27. E, seconda cosa, cosa staremmo
facendo di immorale? Questo è il nostro lavoro, anzi per quanto mi riguarda lo era”.
“Siamo stati in silenzio quando c’era da stare chiusi. Ora ci dicono che possiamo lavorare, sia pure con le
limitazioni giuste imposte per la salvaguardia della salute. Accetto ogni controllo, non le speculazioni. C’è
chi ha paura della notte, come se al buio il virus fosse più pericoloso perché più scorretto il comportamento
dei palermitani. Dobbiamo pensare che di giorno sono tutti santi? Che ogni regola è rispettata? Che le auto
strapiene portano a spasso solo consanguinei? O che vanno tutti in giro con la mascherina e rispettano il
distanziamento sociale? Di notte bastardi, di giorno immacolati? Ma per favore. Vorrei vedere cosa succede
in ogni casa, giorno dopo giorno, che a giudicare dall’ignoranza di molta gente ci ha salvati solo il
padreterno”.