10 settembre 2017- 10 settembre 2020. In onore di uno dei volti più autentici di Palermo.
Il 10 settembre di tre anni fa ci lasciava Gigi Burruano, l’immagine vivente più vicina a Palermo, alle sue contraddizioni, alla sua anima ora dolce e spesso amara. Era il Teatro Massimo e Bellolampo, uomo di talento che faceva a gara con la vita per come sprecarlo più in fretta. Inarrivabile per diverse generazioni di attori palermitani che con la tecnica dello specchio hanno provato senza successo ad essere come lui. Maestro per necessità, non certo per vocazione né tantomeno per scelta, perché in fondo non ha mai avuto la tentazione di fare scuola o costruirsi un clan. Individualista come ogni capocomico, ma generoso e capace di coltivare per decenni le stesse poche amicizie che si è portato sino al giorno del congedo. Mai una parola di invidia verso i colleghi più fortunati e per questo è stato ripagato con la stessa moneta. Provare per credere. Magari qualche ironico ricordo sulle sue passioni – bere e amare – che per anni ne hanno segnato l’immagine come quella di un artista maledetto. Artista maledetto, niente di più falso, perché bere e amare erano i contorni del suo profilo genuino, il suo essere uomo di borgata nonostante le origini per nulla popolari. Mondello è stata la sua caverna, se avesse potuto lavorare senza muoversi da casa l’avrebbe fatto più che volentieri. Eppure, prima di tutti quelli della sua generazione capì che cu nesci arrinesci e già verso la fine degli anni ’70, quando rappresentava un’icona del teatro di tradizione popolare, buttò uno sguardo verso Roma, cercando nel cinema nuove motivazioni e una diversa dimensione d’attore. A Palermo aveva fatto già tutto, il cabaret con i Travaglini di Salvo Licata e Antonio Marsala, il teatro impegnato, l’autore di piece con venature off, con La Coltellata, primo nudo femminile sui palchi palermitani. La protagonista di quella performance, la sublime Rori Quattrocchi, divenne per un periodo la sua compagna di vita e anche la madre della figlia Gelsomina. La coltellata e Gelsomina sono entrati nel suo destino anche in altro contesto. Nel 2006, proprio nel giorno di Santa Rosalia, Burruano fu arrestato per averne assestato un paio al genero, reo di non rispettare la moglie. Fu arrestato in un bar mentre beveva una birra. Patteggiò la condanna, ma alla fine Gelsomina e il marito ripresero il loro cammino.
Dagli anni ’80 sempre più cinema e sempre meno teatro, La Piovra in tv, interpretazioni di spessore per Marco Risi, Marco Tullio Giordana, Giuseppe Tornatore, Gabriele Salvatores. Del Rancutanu si perdevano le tracce, cosa che faceva fatica ad accettare anche lui, attratto però come un calciatore di talento da sfide più stimolanti e ingaggi più adeguati al suo rango. Gigi diventò Luigi Maria, almeno al di là dello Stretto. Quarantanove film – ad un passo dalla cifra pari – ventotto presenze in fiction e sceneggiati televisivi, ha salutato la compagnia a poco più di un mese dal sessantanovesimo compleanno, proprio per ribadire che l’ordine perfetto non è mai stato il suo genere.
Bere e amare, il mantra che l’ha traghettato nell’età adulta è diventato nel frattempo leggenda oltre che vita, in una città che ama disperdere tra le chiacchiere l’anima dei suoi figli migliori, quasi come non riuscisse a perdonare le umane debolezze di chi è padrone della sua esistenza e non accetta di dividerla con altri né con dio. Burruano nell’ultimo mezzo secolo è rimasto sempre una figura imprescindibile, di quelle a cui ti abitui, che magari non vedi per anni ma che ti conforta sapere che c’è. Più di Franco Scaldati, certamente di altro livello poetico ed espressivo, Burruano è stato un’icona pop di Palermo. Come Tanino Troja, indimenticabile bomber dai gol impossibili, con le leggende metropolitane fatte di Porsche e arancine. O come il vecchietto di Mondello che ha svezzato all’uso del fumetto migliaia di palermitani tra Diabolik, Alan Ford, Criminal e Tex, ma è rimasto sempre il vecchietto di Mondello, senza nome. Oppure come lo zio Totino, l’uomo che affittava i campi del Malvagno, indimenticato signore del calcio amatoriale e mai oscurato da Giovanni e Giacomo Tedesco, i campioni che erano suoi nipoti. Burruano vivrà per sempre, sarà come la voce dello sfincione , “io ‘u pittitto ci fazzu grapiri”: c’è ma non si vede. Burruano con i suoi foulard, la sua scia di fumo e whisky, l’ultima speranza per noi ragazzini che cercavamo una sigaretta o 200 lire per la benzina della vespa nelle infinite notti passate davanti alla Fuente, ad un marciapiede da casa sua, matrona accogliente con quell’aria un po’ califanesca che portava a spasso nella vita. Perché in fondo anche per lui, al di fuori della scena, tutto il resto era davvero noia.