Credo sia arrivato il momento di dire grazie ai professori. Il “tutti a casa” ha dimostrato, se ancora ve ne fosse bisogno, che il sistema scuola è interamente sulle loro spalle. E che l’apparato burocratico, negli anni, ha agito per sottrazione di entusiasmo, di competenza e di efficacia. Ha prevalso l’autoreferenzialità della peggiore specie, quella che obbliga a usare moduli invece che pretendere l’arricchimento di sapere.
Di fronte all’emergenza non c’è stata una sola scuola che abbia potuto affrontare la didattica a distanza secondo indicazioni che non fossero concordate all’interno dello stesso istituto se non addirittura nei consigli di classe o nelle fameliche chat delle mamme. Parliamo di cose pratiche, tipo quale piattaforma utilizzare per collegarsi con gli studenti o come fare laddove la tecnologia non garantisse la fondamentale pari opportunità. Sono stati i professori a rimboccarsi le maniche, mettendo a nudo le crepe di un apparato che giorno dopo giorno ha alzato il tappeto per nascondere polvere e polveroni provenienti dai piani di sopra.
È stata la passione dei professori per il loro mestiere a tenere i nostri figli attaccati al surreale procedersi dei giorni senza cedere di un millimetro. Forse anche esagerando in compiti e compitini, intuendo che non si trattava solo di seguire i programmi e procedere alle verifiche, quanto di dare dignità a quelle giornate senza senso, chiusi in una stanza a fare che. Nuovi riti, nuova routine, nuove ricette per entrare in contatto con quelle giovani menti sradicate dalla vita senza colpa apparente.
Qualcuno s’è anche inventato la campanella, in continuità con il suono più atteso al tempo delle aule, quando ci si poteva toccare e passare un compito, quando se entravi in classe dopo qualche ora di lezione sentivi l’odore acre della somma degli ormoni giovanili. Qualcuno ha festeggiato in chat il compleanno di quell’alunna altrimenti destinata a soffiare sulle candeline nel soggiorno di casa davanti ai genitori. Perché ci si è dimenticato in fretta che di fronte alla paura, all’ansia e alla reclusione forzata, davanti al martellamento di questo nemico che ha fatto più morti di molte guerre, è dei piccoli gesti che si ha bisogno. Perché ci riportano a quel concetto di normalità che l’isolamento ha allontanato ora dopo ora.
Già, Il tempo della normalità, quel tempo è stato sospeso. E non era affatto scontato che nel breve lo scatto dei prof sarebbe stato vincente. Abbiamo in Italia una classe docente bistrattata (non sempre per colpe altrui), demotivata (certamente per responsabilità del dante causa), spesso non al pari con i tempi. E proprio quest’ultimo era il rischio più evidente parlando di didattica a distanza. Chi più chi meno, hanno reagito alla grande. Magari lo scatto non sarà stato quello dei centometristi, ma alla lunga stanno reggendo. È venuta fuori la qualità e la determinazione di chi anche prima del Coronavirus dentro di sé portava la scuola come una missione. In tanti altri casi ha prevalso il senso del dovere e quel vago sentore di autogestione che ha fatto crescere il principio della responsabilità.
E poi c’è stato chi è rimasto in pantofole davanti alla tv, ma in pantofole c’era anche da prima e fa parte di quella parte degenerata presente in ogni ambito professionale. Come il prete pedofilo, il giornalista bugiardo o il medico schiavo delle case farmaceutiche. Ma è una parte irrisoria che non muta di una sillaba il senso del discorso. Grazie prof, il legame che avete creato con i vostri ragazzi sarà il ricordo eterno di giornate straordinarie. Che è il contrario di ordinario, ma anche sinonimo di eccezionale.