Quando il 13 febbraio il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e l’aggiunto Paolo Guido interrogarono nel super carcere di L’Aquila Matteo Messina Denaro, lo avvisarono, come da prassi, che aveva la facoltà di non rispondere. E che quindi, se avesse reso dichiarazioni, potevano essere utilizzate nei suoi confronti. Il boss rispose così: “Ascolti, ci saranno cose in cui non rispondo cose in cui rispondo e spiegherò il motivo per cui rispondo e cose che spiegherò il motivo per cui non voglio rispondere…”. Quindi, dopo avere negato omicidi e stragi, ha ammesso comunque di essere “uomo d’onore”, ma non nel senso di appartenenza alla mafia. Ed ha inoltre raccontato le origini del benessere della sua famiglia, dovuto al traffico di beni archeologici portato avanti da suo padre, don Ciccio Messina Denaro, anche lui protagonista di una comoda ma strana latitanza. Il campiere che per passione è diventato un grande esperto di cultura greca e latina, di arte e manufatti antichi.
Quindi, ha spiegato il boss di Castelvetrano, poiché era ricco di famiglia grazie agli introiti delle vendite di beni archeologici, non si è mai occupato di droga e di estorsioni. E quando il procuratore De Lucia gli ha chiesto dove fossero finiti tutti questi soldi, Matteo Messina Denaro ha risposto che li avevano investiti. “Che tipo di investimenti?”, gli hanno chiesto. “Ascolti – ha risposto l’ex super latitante -, in quello che li abbiamo investiti molto ve lo siete presi, Non lei, ma lo Stato. Il resto che non vi siete preso, un po’ era conservato per viverci noi. Noi siamo una famiglia di circa 30 persone. La metà è in carcere, io ero latitante. Aerei, avvocati… Ce ne volevano soldi… Quindi se ne andavano”. L’aggiunto Guido lo ha incalzato chiedendogli: “Lei quando dice famiglia parla di famiglia di sangue?”. “Sì, ovvio, non…”. E il procuratore De Lucia: «Perché suo padre non era uomo d’onore o sì?». E Messina Denaro: «Non gliela feci mai questa domanda… Mi auguro che lo fosse stato… Sì, quantomeno la sua vita avrebbe avuto un senso”.