Sono nostri figli, presidente. Figli di una terra che ha già mostrato loro il volto dell’ingratitudine. Sono giovani che forse non hanno scelto di lasciare la Sicilia, ma hanno dovuto alzare lo sguardo oltre lo Stretto per immaginarsi una vita. Oggi chiedono di tornare a casa e aspettano un gesto di comprensione non il muro della burocrazia che potrebbe ancora ferire la loro anima.
Chiedono di tornare a casa ed è già umiliante che siano costretti a rivelarne i motivi, come se le difficoltà economiche dovessero per forza prevalere sulle esigenze emotive. Giusta ogni precauzione, sbagliato ogni divieto. Questi giovani che parlano dalla Lombardia, dall’Emilia o dal Veneto sembra quasi che abbiano perso un nome e un cognome e ogni diritto a favore della regione di provenienza.
Eppure questi sono i giovani che non hanno ceduto alla tentazione di mollare baracca e burattini quando inopportunamente gli fu data l’occasione di fuggire rischiando un contagio che avrebbe potuto essere fatale per la Sicilia. Che poi anche quelli qualche ragione l’avevano, non fosse altro che agire condizionati dalla paura attenua le loro responsabilità. Ma questi, presidente, non hanno paura. Oggi hanno bisogno.
“Mi chiamo Erica e sono siciliana (a quanto pare a convenienza). Giorno 7 marzo, quando ci fu il primo esodo verso il sud, decisi di rimanere in Lombardia per vari motivi, primo fra tutti per non mettere a rischio i miei cari qualora fossi stata asintomatica. Non è stata una scelta facile e vi assicuro che non è stato altrettanto semplice vivere lontana dalla mia famiglia, con un affitto da pagare, un lavoro da precaria e il terrore causato dalla stessa situazione. Dopo 60 giorni i nervi iniziano a crollare, i nostri appartamenti iniziano a diventare delle gabbie e il senso di solitudine inizia a farsi sempre più grande”.
Un post di Erica ha rappresentato l’ispirazione e un punto di partenza per fare gruppo. Questi sono i siciliani che hanno provato a resistere e che oggi chiedono di tornare a casa. E lo chiedono alla loro maniera, con un video registrato dalle loro case. Hanno creato una rete di sostegno, perché anche un’inflessione dialettale conosciuta può essere importante in un momento in cui bisogna trovare nuove forze per non soccombere a un’altra e inaspettata ingiustizia.
Presidente, parliamo da padre a padre. Io ho una figlia a Milano, che ha scelto di restare a Milano, con senso di responsabilità e una superba dose di coraggio. Ha avuto momenti difficili, specie dopo 40 giorni in cui per sentire una presenza umana doveva guardarsi allo specchio. Oggi è sempre lì, ma non è più sola e questo le ha dato la forza per andare avanti. Eppure non avrei esitato a fare qualsiasi cosa se mi avesse chiesto di tornare. Lei, genitore, conosce il sentimento dei figli. C’è un’età in cui avvertono naturale il bisogno di distacco. Eppure le chiedono di tornare. Presidente, non li faccia sentire sconfitti. E’ già abbastanza che abbiano dovuto invertire due volte il senso della loro esistenza.