L’Odissea di una paziente a Villa Sofia: “Come l’ospedale degli orrori”

La signora Monica Vitale presso il nosocomio palermitano per una visita di controllo della madre ottantenne: “Pazienti stipati in uan stanza senza possibilità di distanziamento e con i catenacci alle finestre”

Questa splendida villa è un’importante testimonianza dell’arte ottocentesca. Oggi è divenuta un noto ospedale di Palermo”. E’ ciò che si può leggere in un interessante sito web dedicato a Villa Sofia Whitaker. In un’ulteriore stralcio dell’articolo a firma Nicola Stanzione si apprende che, nel 1953, l’intero complesso fu venduto, dagli eredi della ricca famiglia di imprenditori originari del West Yorkshire, alla Croce Rossa Italiana. Ed è proprio quì, che quest’ultima vi realizzò uno dei centri ospedalieri più importanti della Sicilia. A maggior ragione perchè sorta in un contesto tanto prestigioso, ci si chiede come mai Villa Sofia finisca spesso per essere additata quale il nosocomio più scadente del capoluogo siciliano. Tante, troppe sono infatti le persone che lamentano un’assistenza non adeguata. Pazienti, e parenti di questi ultimi, entro quelle mura narrano di avere vissuto vicende ai limiti della sopportazione. Come nel caso dell’avvocato Monica Vitale, che, contattata la redazione di Palermo Live dà vita ad uno sfogo duro quanto legittimo.

NIENTE ASCENSORE!

Non potrebbe essere altrimenti visto che, a dovere sobbarcarsi una situazione delirante è stata mia madre. Si tratta di un’anziana signora 80enne, precedemente operata ad un gamba proprio a Villa Sofia. Un’intervento volto alla rimozione di un tumore benigno con la necessità di tornare per le dovute medicazioni“. Ed è nel contesto di uno degli appuntamenti presi (“si fa per dire, visto che, una volta giunti sul posto abbiamo scoperto di doverci mettere a turno tramite penna e foglietto“), che mamma e figlia si accorgono di trovarsi al cospetto di una situazione kafkiana. “Un pizzico biasimo le mie sorelle (sorride amara ndr), con le quali mi sono organizzata i turni per accompagnare mamma, per il fatto di non avermi avvisata che in realtà non si trattava di un vero e proprio appuntamento.” Un’Odissea che inizia di buon mattino, quando le due donne si presentano al padiglione Biondo di chirurgia plastica. All’ingresso indicato dal personale il primo ostacolo: “Niente ascensore! Un paradosso se si pensa che il reparto in questione è riservato a pazienti che hanno subito interventi anche di impianti di protesi.”

UN’ILLUSIONE DURATA POCO

Sotto il sole battente, la signora Monica, dopo avere fatto presente che salire a piedi le scale per l’anziana e sofferente madre non era possibile, percorre con la stessa l’intero perimetro del padiglione Biondo. “In un primo momento ci siamo quase illuse se non rincuorate. Ad accoglierci infatti è stata un’ampia reception, con tanto di zelante infermiera pronta a ricordarci di utlizzare la mascherina. Nonostante avessi fatto presente che non le indossavamo in quanto proveniente da fuori, sotto il sole cocente, mai raccomandazione ho accettato così di buon grado. ” Al secondo piano però, la cruda realtà cancella le belle illusioni. “In attesa, senza i posti a sedere correttamente distanziati, troviamo qualcosa come una settantina di persone. Sedie tutte occupate, gente in piedi tra cui malati con varie medicazioni da effettuare e neanche una finestra aperta. Una condizione di per sè inaccettabile in tempi normali figurarsi nel contesto di una pandemia.”

PER LA DIGNITA’ DI OGNI ESSERE UMANO

La classica goccia che fa traboccare il vaso la vista, per ogni finestra, di un catenaccio. “Con le stesse modalità, erano chiuse anche le finestre delle scale. In questa bolgia, con una calura insopportabile, l’ulteriore beffa, come detto, è stato scoprire che l’appuntamento fissato per le dieci non sarebbe stato rispettato. I pazienti dovevano osservare un turno fisico, scrivendo il cognome su un foglietto appeso fuori. Neanche la legittima richiesta delle chiavi per aprire i catenacci alle finestre è stata esaudita. “La più classica quanto desolante delle risposte da parte del personale (“guardi, io non posso farci niente, provi a contattare la direzione”) ha fatto sì che qualsiasi indugio volto alla denuncia di quanto vissuto a Villa Sofia fosse rotto. “Ritengo infatti opprtuno – precisa Monica Vitale – che i diritti del malato ad una seria e adeguata assistenza debbano essere sempre e comunque assicurati. Ciò che può a prima vista apparire come l’ennesima lamentela di una situazione risaputa da tempo vuole invece significare ben altro. Ovvero la volontà di non rassegnarsi mai alla negazione di un diritto fondamentale come quello della dignità di ogni essere umano.