A coronamento dell’indagine su Cosa nostra e la stidda agrigentina, coordinata dal procuratore Paolo Guido della direzione distrettuale antimafia e condotta dai carabinieri del Ros, ieri mattina c’è stato un blitz che ha colpito i clan di Agrigento e Trapani. I magistrati hanno spiccato 23 fermi, ma in realtà quelli portati a termine sono in realtà quelli effettivi sono 21. Uno infatti riguardava l’imprendibile Messina Denaro, e l’altro Giuseppe Falsone, già in carcere da 10 anni.
Ma dentro l’indagine dei Ros non c’era solo la vecchia mafia. I provvedimenti hanno riguardato anche poliziotti infedeli e un avvocato. Anzi, una avvocata. Infatti, nello studio di Canicattì della penalista Angela Porcello, si sono svolti tanti summit di mafia. I boss immaginavano di essere al riparo, convinti che nello studio di un avvocato nessuno avrebbe piazzato microspie. Invece si sbagliavano. Per due anni, a ritrovarsi nello studio dell’avvocato erano i capi dei mandamenti di Canicattì, della famiglia di Ravanusa, Favara e Licata. Oltre un ex fedelissimo del boss Bernardo Provenzano, Simone Castello di Villabate e il nuovo capo della Stidda. Questi incontri hanno permesso di ricostruire le attività e gli assetti dei mafiosi. L’avvocata, compagna di un mafioso, aveva il ruolo di consigliera, suggeritrice e ispiratrice di diverse attività dei clan. Avrebbe assunto pian piano addirittura il ruolo di vera e propria organizzatrice del mandamento mafioso di Canicattì, tanto da gestirne perfino la cassa.
Inoltre, sarebbe anche emerso, come spiegano gli investigatori dei Ros, responsabilità per un poliziotto penitenziario in servizio ad Agrigento. Il quale, durante un colloquio telefonico tra Falsone e l’avvocata Porcello, avrebbe consentito alla legale di portare in carcere lo smartphone. E di usarlo rispondendo alle telefonate ricevute nel corso dell’incontro con il suo assistito. Ma anche altri due poliziotti in servizio al commissariato di Canicattì sono accusati di avere passato tramite tramite l’avvocata informazioni riservate ai mafiosi. Sono l’ispettore Filippo Pitruzzella, di 60 anni e il sovrintendente Giuseppe D’Andrea di 49. L’ispettore inoltre è accusato di avere redatto annotazioni di servizio «su sollecitazione dell’avvocata Porcello, finalizzate all’avvio di indagini nei confronti di esponenti mafiosi, o soggetti ad essi contigui. D’Andrea invece si sarebbe introdotto «abusivamente in un sistema informatico protetto da misure di sicurezza “per acquisire notizie su Maria Debora Monterosso e Maria Rossella Lupo, nonchè, con il concorso di altro pubblico ufficiale ancora non compiutamente identificato, sull’imprenditore Giuseppe Fonti”.
Dalle carte è emerso anche che Matteo Messina Denaro, capomafia trapanese latitante da 28 anni, è ancora riconosciuto come l’unico boss cui spettano le decisioni su investiture o destituzioni dei vertici di Cosa nostra. Anche il super boss, come detto, è destinatario di un provvedimento di fermo, ma impossibile da eseguire. Vista la perenne latitanza del padrino trapanese. Il ruolo del boss di Castelvetrano viene fuori nella vicenda relativa al tentativo di alcuni uomini d’onore di esautorare un boss dalla guida del mandamento di Canicattì. Dall’indagine è emerso che per di realizzare il loro progetto i mafiosi avevano bisogno del beneplacito di Messina Denaro, che continua, dunque, a decidere le sorti e gli equilibri di potere di Cosa nostra pur essendo da anni imprendibile.