“Palermo come Beirut”, così intitolarono i quotidiani il giorno dopo la strage di via Pipitone Federico, a Palermo, in cui venne ucciso il giudice Rocco Chinnici. Con lui morirono i carabinieri di scorta, il maresciallo ordinario Mario Trapassi, l’appuntato scelto Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile in cui viveva il magistrato, Stefano Li Sacchi.
Chinnici stava per salire sulla sua Alfetta blindata ma il boss di Resuttana, Antonino Madonia, azionò il telecomando proprio nel momento in cui il giudice stava per transitare accanto ad una Fiat 126 verde, imbottita con 75 chili di tritolo. L’esplosione fu devastante. 41 anni dopo, Palermo ricorda il ‘padre fondatore’ del pool antimafia, colui che volle a suo fianco giudici come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e che fu il precursore di fondamentali intuizioni nella lotta alla criminalità organizzata, preso come modello anche in ambito transnazionale.
Presenti alla cerimonia di commemorazione, anche i figli del giudice Chinnici: Caterina, Elvira e Giovanni. “C’è voluto del tempo perché cambiasse la percezione pubblica della lotta alla mafia”, dichiara l’onorevole europarlamentare Caterina Chinnici. “Mio padre è morto in un momento in cui ancora non c’era questa sensibilità, non si comprendeva la pericolosità della mafia. Una mafia che non si manifestava in maniera aperta ma che faceva sentire la propria presenza sul territorio. A poco a poco le cose sono cambiate. Ci sono volute purtroppo le altre due stragi di Falcone di Borsellino e da lì finalmente è cominciato il cambiamento. Una diversa percezione del fenomeno, una diversa attenzione e direi anche una diversa vicinanza a quei magistrati, e non solo, che lavorano proprio per contrastare ogni forma di criminalità organizzata. Mio padre fu il primo a cercare di sollecitare il cambiamento culturale, oltre le indagini e i processi. È importante ancora oggi lavorare per questo, rivolgendosi soprattutto ai giovani così come ha fatto Rocco Chinnici, andando per primo nelle scuole”.