Si sono concluse ieri le commemorazioni in memoria di Peppino Impastato, l’attivista di Cinisi ucciso dalla mafia il 9 maggio del 1978. Sono trascorsi 45 anni dal suo assassinio ma l’eco della voce di Peppino, quella che ha risuonato in Radio Aut, rivive ancora nelle coscienze di tantissimi, soprattutto giovani.
A ricordare l’amico è Salvo Vitale, che proprio insieme a Peppino ha fondato Radio Aut nel 1977. Celebre il suo monologo a la notte dell’omicidio, recitato anche nel film ‘I cento passi’ dall’attore Claudio Gioè: “Stamattina Peppino avrebbe dovuto tenere il comizio conclusivo della sua campagna elettorale. Non ci sarà nessun comizio e non ci saranno più altre trasmissioni. Peppino non c’è più”.
Salvo, che giornata è stata per lei quella di ieri?
“Direi una giornata rigenerante. È andata benissimo. Il corteo, rispetto alle previsioni, era abbastanza numeroso. A mio parere c’erano circa 4-5mila persone. Soprattutto molti ragazzi, provenienti da tutta Italia. Il corteo non è mai una sterile passeggiata. Serve a stare insieme, urlare, scambiarsi idee… va al di là della cerimonia”.
La presenza di molti giovani a distanza di 45 anni dall’uccisione di Peppino, ragazzi che non erano neanche nati in quell’anno memorabile per la storia del nostro Paese. A cosa è dovuto tutto questo, qual è il vero motore scatenante?
“Peppino ha lasciato in eredità cose che oggi sono attualissime, tematiche vicinissime ai giovani. In primis, il rispetto dell’ambiente. Memorabili le lotte di Peppino per l’aeroporto di Punta Raisi, per la speculazione dei territori cementificati ma anche per tutte le costruzioni abusive lungo i chilometri della nostra costa. Lotte emblematiche, temi in cui senza dubbio Peppino è stato precursore. Per non parlare poi delle fonti energetiche e delle lotte contro il nucleare. Altro elemento, ovviamente, la sua capacità di ribellarsi a tutto, anche alla propria famiglia. La ribellione contro le istituzioni, contro le prepotenze, a cominciare da quella mafiosa, contro chi vuole vivere sulle tue spalle. Quella stessa voglia di ribellione che condividono oggi molti adolescenti”.
Che ricordo ha di quel 9 maggio 1978?
“È come mettere un dito nella piaga. Una delle giornate più devastanti della mia vita. Quella mattina, intorno alle 6, tre compagni vennero a dirmi: ‘Hanno ammazzato Peppino’. Mi sono sentito come trapassare da una lama. Poi, come se non bastasse, esser guardati come i compagni di un terrorista. Ci è pesato tantissimi in quegli anni. C’era persino il divieto assoluto di mettere piede alla radio perché veniva detto che lì c’erano orge, drogati, bombe… tutto il fango che potevano buttarci addosso. Ci hanno tolto l’aria di ricambio. Ho portato avanti la radio fino al 1980, fino a quando ho potuto, perché non c’erano più ragazzi, né collaboratori, né soldi”.
Nessuno di voi ha mai avuto dubbi sul suicidio inscenato
“Nessuno, assolutamente. Io ho lasciato Peppino verso le 8 di sera, davanti la soglia di casa mia. Mi aveva detto ‘Ci vediamo più tardi’. Andava via e decideva di suicidarsi dopo questo? Assolutamente no”.
Sapere la verità, averla davanti agli occhi ma aspettare anni per avere giustizia. Quanto è pesato tutto questo?
“Per i primi 9 mesi, periodo delle indagini, ci siamo sostituiti ai carabinieri. Siamo stati noi a scoprire la macchia di sangue nel casolare. Ma nonostante questo, continuavano i depistaggi da parte dei militari volti a vedere come unica via quella del suicidio terrorista. Fortunatamente poi, grazie all’intervento del procuratore Gaetano Costa, il giudice Signorino formalizzò l’istruttoria come omicidio ad opera di ignoti. Questa fu poi organizzata e perfezionata da chi gli successe, ovvero il magistrato Rocco Chinnici, che cominciò a darci un minimo di fiducia”.
Fiducia, dunque, da parte del giudice Chinnici e quanta ancora da Mamma Felicia?
“Grande donna. Ci stava costantemente addosso, ‘Stamu attenti picciotti’ (‘Stiamo attenti ragazzi’). Informata su tutto, sempre motivata a dirci di andare avanti ma con cautela, avendo soprattutto paura per l’altro figlio, Giovanni”.
Una verità giudiziaria che si è fatta attendere tanto, più di 20 anni. Soltanto nel 2001 si giunse alla condanna di Vito Palazzolo a 30 anni (con rito abbreviato) e nel 2002 alla sentenza di ergastolo per Gaetano Badalamenti (con rito ordinario), riconosciuti come i mandanti dell’omicidio di Giuseppe Impastato.
Crede che, dal punto di visto giuridico, si sia tutto esaurito?
“Si è fatto quello che si poteva fare, in base a ciò che avevamo. In parte merito anche di alcune fortunate circostanze, a cominciare dal film ‘I cento passi’. Badalamenti è stato condannato per indizi. Se fosse arrivato in Appello, non so come poteva andare a finire”.
Qual è il pensiero quotidiano che rivolge a Peppino?
“Spesso mi viene spontaneo fargli una domanda:’ Ma ancora ci criri?’ (‘Ci credi ancora?’) e mi sembra di vederlo sorridere, perché sì, ci crede ancora. Io ci credo ancora”.