Sono trascorsi 46 anni dall’assassinio di Giuseppe Impastato, per tutti Peppino, ucciso dalla mafia a soli 30 anni il 9 maggio del 1978. Attivista politico di Cinisi, in provincia di Palermo, Peppino voleva cambiare il modo di pensare, di agire, lontano dalle ingiustizie e dalla corruzione.
Ha iniziato dal proprio paese, dalla propria famiglia, dal ‘male’ che gli era più vicino: la mafia. Venne assassinato, il corpo ridotto a brandelli, la sua memoria oltraggiata. Ci vollero decenni affinché ottenesse giustizia e il suo omicidio riconosciuto di stampo mafioso, grazie soprattutto alle lotte della mamma Felicia, del fratello Giovanni e dei suoi compagni.
Ed è proprio Giovanni Impastato che lo ricorda insieme a noi nel 46esimo anniversario della sua morte. “Questo anniversario non li dimostra proprio questi 46 anni, mi sembra proprio giovanissimo. Questo perché abbiamo dato importanza alla memoria. Perché abbiamo ricordato Peppino, abbiamo ricordato Felicia, abbiamo raccontato la nostra storia. Leonardo Sciascia diceva che se una storia non si racconta, rischia di sparire. Noi abbiamo fatto tutto il possibile affinché non sparisse. Raccontatela, parlatene, non dimenticare”.
“La vita con Peppino è stata tormentata, ma non per causa sua. Purtroppo abbiamo vissuto in un contesto familiare difficile. La nostra famiglia era mafiosa, e per ‘mafiosa’ non intendo dire che c’erano legami, compromissioni, corruzione… no. C’era dell’alta mafia. Lo zio Cesare Manzella era il boss di Cinisi. Peppino ha operato una rottura storica sotto tutti i punti di vista, perché non è avvenuta solo all’interno del contesto sociale in cui ha vissuto, ma soprattutto all’interno della propria famiglia. Poi è chiaro che fra me e Peppino c’era un rapporto conflittuale dovuto anche dalla differenza d’età, io avevo cinque anni in meno. Anche se non sono tantissimi, a quell’età – 25 e 30 anni – ci si scontra parecchio. Io per esempio condividevo appieno le sue idee politiche, le sue scelte e lui era molto affascinante, parlava bene, aveva molto carisma. Ma non condividevo lo scontro diretto con la mafia, quando lui faceva i nomi e cognomi, quando accusava fatti e misfatti. E non perché io fossi dall’altra parte ma perché avevo paura”.
Infine Giovanni ci parla del casolare dove venne ucciso Peppino, per anni abbandonato, oggi restaurato e restituito alla collettività. “Il casolare lo abbiamo salvato. Lì c’è stato l’ultimo respiro di Peppino, dove abbiamo trovato le macchie di sangue, le pietre insanguinate. Oggi il casolare appartiene a noi, e non noi come Casa Memoria o come famiglia Impastato. Appartiene a tutti noi, alla società civile”.