Potrebbero essere di Mauro De Mauro i resti trovati nella grotta di Catania

L’attenzione della figlia di De Mauro è stata sollecitata dal ritrovamento di un cadavere non identificato, la cui morte, secondo i primi rilievi, risalirebbe agli anni 70, epoca della scomparsa del padre

I resti umani ritrovati in una grotta alle pendici dell’Etna potrebbero essere quelli di Mauro De Mauro, il giornalista scomparso a Palermo il 16 settembre 1970. È stata la figlia Franca a segnalare questa eventualità agli inquirenti, dopo avere saputo dai media che i resti scoperti risalirebbero a un periodo compatibile con la scomparsa del padre. Inoltre, a sollecitare l’attenzione di Franca De Mauro è stata la circostanza che l’uomo ritrovato presenta segni di frattura sul naso e malformazioni alla bocca, compatibili con quelle che aveva il padre. Tuttavia la donna non ha riconosciuto gli oggetti trovati vicino al corpo. E, inoltre, nelle tasche dell’abito c’era un pettine, e la De Mauro esclude che il padre lo portasse con sé. In ogni caso la De Mauro ha chiesto una verifica scientifica, per avere risposte certe sull’appartenenza dei resti. Sarà disposto quindi un esame comparativo del Dna, per verificare se i resti umani trovati siano davvero quelli del giornalista scomparso.

LA SCOMPARSA DI DE MAURO UNO DEI MISTERI SICILIANI

Quello della scomparsa di Mauro De Mauro è un mistero lungo 50 anni. È ormai definitiva la sentenza che ha assolto dai reati di omicidio e occultamento del cadavere il boss Totò Riina. I giudici, nella sentenza che scagionò il capo dei capi di Cosa nostra, ipotizzarono che dietro la scomparsa di De Mauro ci fosse la morte di Enrico Mattei. «Si era spinto troppo oltre nella sua ricerca sulle ultime ore del presidente dell’Eni in Sicilia», scrisse la Corte d’assise. I giudici spiegarono che il giornalista, che lavorava al film di Rosi “Il caso Mattei”, sarebbe giunto troppo vicino a scoprire la verità. Sul sabotaggio dell’aereo e sulla identità dei mandanti. Un segreto che De Mauro avrebbe pagato con la vita. A fare “il lavoro” sarebbe stata Cosa nostra. Ma non quella di Totò Riina, bensì quella di Stefano Bontade, Giuseppe Di Cristina e don Tano Badalamenti. Che all’epoca avevano un potere e un controllo del territorio tali da poter organizzare un delitto eccellente senza la complicità dei corleonesi. Tutti i protagonisti di questa ipotesi sono morti. E non sono mai stati condannati in un’aula di tribunale.