Terra Matta, da Vincenzo a Vincenzo: l’opera di Pirrotta a Palermo

Terra Matta

Per raccontare Terra Matta, l’opera teatrale di Vincenzo Pirrotta in scena in questi giorni al Teatro
Biondo di Palermo
, bisogna fare un passo indietro nel tempo per tratteggiare la parabola editoriale
del testo da cui lo spettacolo è tratto. Questo passo del gambero è utile per dare conto dello sforzo
compiuto da Pirrotta e degli esiti potenti a cui è giunto con la sua drammatizzazione di un testo per
molti versi inclassificabile. Ma partiamo dall’inizio. Nel 2000 il “Premio Pieve” viene assegnato al diario di uno sconosciuto, un certo Vincenzo Rabito che dal 1968 al 1975 combatte, nel chiuso della sua stanza, contro una vecchia Olivetti per scrivere la sua autobiografia. La motivazione del premio contiene aggettivi illuminanti per comprendere la portata del testo premiato: “Vivace, irruenta, non addomesticabile”, così la giuria descrive infatti la vicenda umana di Vincenzo Rabito. Ma l’aggettivo che a mio avviso meglio incarna questa rutilante epopea personale che attraversa la fetta più importante del nostro novecento è “debordante”.

Se si effettua una considerazione di ordine meramente quantitativo, l’aggettivo da un’idea precisa delle
caratteristiche del testo; lungo più di mille pagine, ognuna di esse coperta completamente da righe di testo a interlinea zero, senza un centimetro di margine superiore, inferiore e laterale, quest’opera non può che definirsi debordante. Ma non è solo l’aspetto quantitativo a impressionare ma anche la
lingua che Vincenzo Rabito ha inventato per mettere su carta tutte le vicende della sua lunga vita. E’
una lingua orale zeppa di neologismi e “sicilianismi”, dove le parole sono separate in modo tanto
costante quanto inutile, da punti e virgola, lasciando vagare a caso il resto della punteggiatura lungo
tutto il resto del testo. Ed è stato un lavoro enorme anche quello dei redattori della casa editrice per
rendere il testo pubblicabile. Interventi sulla lunghezza innanzitutto sono risultati necessari e poi sul testo stesso, per renderlo leggibile senza però alterarne il ritmo, la capacità comunicativa, la creatività, la carica emotiva per restituire al lettore la sua autenticità, tutta la fedeltà di quello che è stato definitivo un capolavoro popolare, un “capolavoro impossibile” per le sue caratteristiche originarie. E se non fosse stato per il figlio di Vincenzo Rabito, Giovanni, che tirandolo fuori dal cassetto lo ha inviato alla fine degli anni novanta all’Archivio diaristico nazionale di Pieve di Santo Stefano, non saremmo qui a parlarne.
E qui veniamo all’altro Vincenzo quel Pirrotta che venuto a conoscenza del testo prima ancora che
venisse dato alle stampe, ne diede una lettura pubblica al Circolo dei lettori di Torino su richiesta di Evelina Santangelo curatrice del testo. Quando gli fu sottoposto Pirrotta non credeva fosse reale quella autobiografia, ma frutto di un’operazione editoriale. L’incredulità di Vincenzo Pirrotta, come lui stesso ammette, è conseguenza della sorpresa che quella lingua inaudita gli procurò. Poi però, e per fortuna, le cose presero una piega diversa e di quel testo che della grammatica faceva scempio e del lemmi un’invenzione continua, Vincenzo Pirrotta ne fece una trascrizione drammaturgica di
successo.

Adesso di quel primo spettacolo Pirrotta ne offre al pubblico una nuova edizione di cui firma non
solo l’adattamento teatrale ma anche la regia e le scene. Il nostro porta quindi la vita “desprezata” di Vincenzo Rabito in un’ora e mezza densissima che lascia senza fiato per diverse ragioni. La prima ragione riguarda la presenza fisica di Vincenzo Pirrotta che non lascia mai il palco facendo scorrere dal suo petto, dalle sue corde vocali potenti e duttili, tutto quel fiume di parole affastellate, dalla complessa pronuncia, che caratterizzano il testo originale, senza mai derogare alla sua autenticità, alla sua forza rivelatrice, alla sua carica drammatica ma anche alla sua capacità umoristica. Tutte qualità che Pirrotta incarna perfettamente lasciando senza fiato il pubblico che ride, piange, ansima, corre, balla, urla, sussurra insieme a lui.

Ma perché è necessario assistere a uno spettacolo simile? La risposta è semplice: per l’abilità di
Vincenzo Pirrotta a mischiare insieme il grottesco con il drammatico reinterpretando, in chiave
contemporanea, l’interdisciplinarietà del teatro dadaista, mescolando magistralmente recitazione,
danza e musica.
Assistere a questa opera teatrale non solo è consigliato ma è necessario; per
vivificare la memoria innanzitutto. In poco più di un’ora e mezza si attraversa un secolo di storia
con lo sguardo di chi, adesso, ha visto nascere e poi morire e poi nascere di nuovo una destra
becera. Uno sguardo che ha visto le guerre mondiali nascere e poi morire e poi rinascere sotto
mentite spoglie, al centro della nostra Europa. E’ uno spettacolo-mondo, capace di rendere visibile,
con scelte drammaturgiche di grande potenza, la linea del tempo che si compone di fatti grandi e
piccoli, di avvenimenti familiari come un matrimonio nato sotto lo sguardo ingombrante della
suocera, la “Canazza” odiata, ma anche dai grandi avvenimenti storici. La prima guerra mondiale
con il suo carico di morti, la nascita del fascismo con le sue velleità coloniali, la seconda guerra
mondiale scandita, nei suoi passi tragici, da un carabiniere che passando sul palco ne aggiorna i
massacri, le conquiste, le sconfitte.

E mentre tutto questo succede Vincenzo Pirrotta, supportato da un impianto luci magistrale e da un
pool di attori memorabile per bravura, si aggira per il palco minimalista a sciorinare la storia
dell’altro Vincenzo grazie a un uso emotivamente coinvolgente di una prima persona singolare, un
Io stordente anche lui necessario per raccontare la difficile guerra che il protagonista combatte
quotidianamente, per sopravvivere fisicamente ed economicamente alle offese della vita.
Non si può fare a meno di notare, nell’adattamento di Pirrotta, le bellissime musiche originali di
Luca Mauceri che costruiscono un tappeto sonoro intenso, capace di sostenere le parti drammatiche
come quelle grottesche di cui l’opera è costellata, in un’altalena di sensazioni che lascia allo spettatore un doppio gusto in bocca; il gusto dolce del riso per gli episodi tragicomici che Vincenzo Rabito ha vissuto nel campo delle esperienze sessuali con le “bottane” che in lui hanno lasciato, insieme al piacere, anche i sintomi dolorosi di malattie veneree molto diffuse all’epoca. Dall’altro lato in bocca ci rimane il sapore amaro dovuto alle vicende tragiche, dalla perdita degli affetti cari, alla sofferenza fisica della vita militare, dal terrore per la morte sfiorata in trincea alla fame di chi il mangiare lo deve grattare via dalla terra arida. Ma ciò che più sorprende di questa vicenda che dovrebbe essere monito per tanti occidentali viziati di oggi, è che nonostante la tragedia di una storia del novecento pervasiva, nonostante la fatica fisica sempre presente, nonostante le malattie subite pure per ignoranza medica, nonostante le insopportabili delusioni familiari, nonostante tutti questi sussulti esistenziali Vincenzo Rabito resiste grazie alla sua vitalità insopprimibile, grazie alla sua curiosità per la vita che diventa così la forza motrice per attraversare indenne la zolle impervie della sua terra matta.