Uomo del mio tempo, resti quello della pietra e della fionda

Scritta nel 1946 da Salvatore Quasimodo, la poesia “Uomo del mio tempo” non smette di essere drammaticamente attuale

uomo

Le immagini di guerra che nella giornata di ieri hanno invaso la rete non possono di certo lasciarci indifferenti. Ancora una volta l’uomo torna a seminare morte e distruzione, un’attività che forse, in realtà, non smette mai del tutto di portare avanti. La Russia ha invaso l’Ucraina e tutti, nell’era dei social, abbiamo sentito risuonare nelle nostre orecchie le sirene d’allarme. La gente fugge, le auto incolonnate per oltrepassare il confine diventano simbolo d’una stabilità perduta. Di una salvezza agognata e che probabilmente per molti non ci sarà.

Uomo e guerra, un binomio che fin dall’antichità continua a ripresentarsi. Cambiano le armi, si impiegano nuove tecnologie ma l’esito è sempre nefasto. Tanto è stato scritto, nel corso della storia, su questo tema e oggi vi proponiamo una poesia agghiacciante nella sua attualità. “Uomo del mio tempo” fu scritta da Salvatore Quasimodo nel 1946, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Un conflitto sanguinoso che aveva spinto il poeta a riflettere sulla natura dell’uomo che, nonostante il progresso tecnologico, rimane sempre quello “della pietra e della fionda”. Dalle armi rudimentali, agli strumenti di tortura, alle “ali maligne” degli aerei che seminano distruzione. Una “scienza esatta persuasa allo sterminio” che trae le sue radici quasi dalla fondazione del mondo, dal primo uomo, Caino, che fu capace di uccidere il proprio fratello senza pietà.

Ancora oggi fratello uccide fratello in questa umanità di sangue versato. E non possiamo che unirci allo speranzoso invito del poeta: “Dimenticate i padri”. Se commettiamo gli errori del passato, non possiamo sperare di certo in una società diversa per il futuro.

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

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