“Viaggio a Kandahar”, il film che racconta il dramma delle donne afghane

Girata nel 2001, la pellicola mantiene inalterato il messaggio politico e la tensione civile che la rendono attuale, oggi più che mai

La protagonista Nelofer Pazira

Conoscenza e denuncia, oscurantismo e bellezza: c’è tutto questo, e molto di più, in “Viaggio a Kandahar“.
L’ opera, diretta da Mohsen Makhmalbaf, regista iraniano da sempre attento ai temi della condizione femminile, documenta l’odissea nell’Afghanistan martoriato dai talebani.
La pellicola ha visto la luce venti anni fa, ma il messaggio politico rimane purtroppo attuale.
E, per molti versi, ancora oggi, inascoltato da parte della comunità internazionale.
Un film “necessario”, ispirato a una storia vera, per comprendere cosa è accaduto realmente negli ultimi decenni.

LA TRAMA

Di recente, in seguito agli ultimi avvenimenti in corso nel Paese islamico, il film è stato citato quale testimonianza fondamentale per ripercorrere la storia della nazione asiatica.
E, soprattutto, un ‘occasione per analizzare il significato del ritorno al potere del talebani.

"Viaggio a Kandahar" è un road movie che racconta al meglio la condizione delle donne afghane
“Viaggio a Kandahar” è un road movie che racconta la condizione delle donne afghane

L’opera racconta il viaggio dall’Iran all’Afghanistan di una giornalista trasferitasi in Canada, intenta a raggiungere la sorella.
Quest’ultima, priva di gambe, vuole mettere in atto il triste proposito di suicidarsi durante l’ultima eclissi del secolo.
Gli spostamenti compiuti dalla protagonista – l’attrice Nelofer Pazira, che interpreta se stessa- sono il pretesto narrativo per mostrare gli scenari della guerra e gli esiti del fanatismo religioso.
E, con essi, la devastazione imperante e l’assurdità del trattamento riservato alle donne.
Il film possiede tutte le caratteristiche tradizionali del road movie, con finestre continue che si aprono sulla quotidianità e incontri con personaggi “di passaggio”.
Le riprese sono state effettuate in Iran e, in segreto, anche in Afghanistan.

PREMI, RICONOSCIMENTI E CRITICHE

Presentato in concorso alla cinquantaquattresima edizione del Festival di Cannes, ha vinto il Premio della giuria ecumenica.
Il vero successo di pubblico è arrivato dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001, anno stesso in cui il film è approdato nelle sale.
Grandi consensi anche per il regista, che ha vinto il “Federico Fellini Prize“.
Qualcuno ha sottolineato l’estetismo che caratterizza l’opera: ovvero, una ricerca eccessiva di valori formali, bellezza ed eleganza.
Altri hanno puntato il dito contro l’utilizzo della forma aneddottica e l’insufficienza della visione critica.
Due elementi che compromettono qua e là la drammaticità del racconto, laddove la condizione reale vorrebbe, al contrario, uno sguardo “forte”.
Al di là delle autorevoli considerazioni degli addetti ai lavori, l’opera merita comunque grande attenzione per la tensione civile che l’attraversa.
E rimane uno dei film più efficaci di tutti i tempi per comprendere le dinamiche sociali del Medio-Oriente allargato.

UN PAESE DOMINATO DALLA PAURA

Un territorio poverissimo ma situato in una posizione strategica fondamentale.
Vi passava, infatti, la cosiddetta “via della seta”, dalla Cina all’ Occidente.
Molto diffusa la coltivazione di oppio, che genera profitti per i talebani e rappresenta al tempo stesso una fonte di sussistenza per moltissimi afghani.
Le donne sono state protagoniste di una fulgida stagione negli anni settanta, tempi in cui vestivano con la minigonna e giocavano a pallavolo, negli stadi e nelle palestre.
La condizione delle afghane è peggiorata dal 1996 al 2001, gli anni terribili dell’ascesa al potere dei fondamentalisti islamici.
Con la caduta del regime e l’avvento delle truppe statunitensi, molti assurdi divieti sono stati abrogati, a partire dall’obbligo di indossare anonimi burka che azzerano volutamente l’identità femminile, privando le donne di qualsiasi diritto civile, senza pietà.
Tuttavia, anche negli anni in cui la presenza degli eserciti occidentali ha mitigato la durezza del regime teocratico basato sulla rigida applicazione della legge coranica, tanti sono stati gli episodi di violenza contro le donne.

I RISCHI DI UN RITORNO AL PASSATO OSCURANTISTA

Oggi, con il ritorno dei talebani si teme un nuovo accanimento contro la popolazione femminile.
Il timore diffuso è che le donne possano ancora subire irrazionali condanne all’ignoranza, alla solitudine e alla morte.
Il burka, non a caso, continua a rappresentare l’emblema dell’eclisse e del buio voluti dai talebani.
Una metafora potente dell’oscurantismo vissuto come opposizione illogica a tutte le forme di progresso.
L’ Afghanistan è dominato dal terrore: ai più piccoli si insegna a temere persino le bambole, che potrebbero nascondere mine antiuomo.
E strappare gambe e braccia, in un Paese dove più di un milione di persone è affetto da qualche forma di disabilità.
Nella stragrande maggioranza di casi, si tratta di amputazioni provocate dalle ferite di quattro decenni di guerra.
Quasi due terzi degli incidenti tra i pazienti della Clinica Ortopedica del Comitato Internazionale della Croce Rossa a Kabul che hanno perso gli arti, sono dovuti a mine terrestri, ordigni esplosivi improvvisati e altri residuati bellici.
La protagonista di “Viaggio a Kandahar” Nelofer Pazira, attivista per i diritti umani, ha paventato “un ritorno al Medioevo” riferendosi al rientro dei talebani.
E ha definito “un regalo per la Cina e l’Iran” il ritiro delle truppe.
“Gli americani – ha dichiarato – sono stati una delusione, non hanno neppure costruito una vera economia”.