WhatsApp, Cassazione conferma sentenza shock: entrare in queste chat configura reato penale

WhatsApp - fonte pexels - palermolive.it

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Non conoscere le regole per l’utilizzo di WhatsApp può costare caro, si rischia una denuncia e problemi legali

WhatsApp, nata nel 2009 come semplice app di messaggistica istantanea, ha introdotto la crittografia end-to-end (E2E) solo nel 2016, garantendo una maggiore protezione delle conversazioni. Tuttavia, alcune vulnerabilità rimangono. L’app conserva i metadati sui propri server senza cifratura, giustificando questa scelta con la necessità di migliorare il servizio. Inoltre, la funzione di backup delle chat, sebbene utile per il trasferimento tra dispositivi, rappresenta un potenziale rischio per la sicurezza delle informazioni sensibili.

Solo dal 2020 Google Drive e iCloud hanno introdotto la cifratura. Tuttavia, questa protezione è meno sicura rispetto alla crittografia E2E, poiché la chiave di cifratura viene inviata tramite SMS e resta comunque sotto il controllo di WhatsApp. L’acquisizione dell’app da parte di Facebook (Meta) ha inoltre sollevato preoccupazioni sulla privacy: dal 2016, i metadati degli utenti vengono utilizzati per la pubblicità mirata, una pratica criticata ma che difficilmente verrà abbandonata dall’azienda.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3025 del 27 gennaio 2025, ha ribadito che accedere al telefono di un’altra persona, anche se si conosce il codice di sblocco, costituisce un reato. Questo principio conferma un orientamento giurisprudenziale già consolidato, che tutela la privacy e la corrispondenza delle persone, impedendo accessi non autorizzati ai loro dispositivi elettronici.

Un reato grave, senza eccezioni

Accedere al telefono di un ex partner per visualizzare chat, anche con l’intento di raccogliere prove per un processo, configura il reato di accesso abusivo a sistema informatico e violazione di corrispondenza. La Cassazione ha chiarito che non esistono giustificazioni valide per questa condotta, nemmeno quando l’obiettivo è tutelare un minore o far valere i propri diritti in tribunale. Le conversazioni possono essere acquisite solo tramite specifici provvedimenti giudiziari.

Un aspetto fondamentale della sentenza riguarda il fatto che, anche se la password era stata condivisa in passato, l’accesso successivo senza consenso è comunque illecito. La Corte ha sottolineato che l’autorizzazione iniziale non giustifica un uso che esorbita dalla volontà del proprietario del dispositivo. Questo principio era già stato sancito in precedenti decisioni della Cassazione, che hanno chiarito come il diritto alla privacy prevalga su qualsiasi utilizzo improprio delle credenziali di accesso.

WhatsApp - fonte pexels - palermolive.it
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Nessuna scusa per giustificare l’illecito

La Cassazione ha respinto qualsiasi tentativo di giustificazione, ribadendo che l’accesso abusivo non può essere considerato un atto di tutela nei confronti di un figlio o un diritto di difesa in un procedimento legale. Se fosse necessario acquisire determinate conversazioni per un processo, l’unico modo lecito sarebbe ottenere un’autorizzazione del giudice. Chiunque acceda abusivamente a un dispositivo rischia non solo una condanna penale, ma anche conseguenze civili per violazione della privacy.

Se si conosce la password di un telefono o di un altro dispositivo che non è di nostra proprietà, il nostro utilizzo deve limitarsi esclusivamente allo scopo per cui il codice ci è stato fornito. È vietato leggere, copiare o condividere informazioni senza il consenso del titolare. Ignorare questa regola significa esporsi a gravi rischi legali, con la possibilità di subire una condanna per reati informatici e violazione della corrispondenza.