Woodstock supera in curva la fine della seconda guerra mondiale

La storia si prende gioco di noi: il 15 agosto la resa di Hirohito ma anche l’inizio del più importante festival
rock del mondo

La storia ogni tanto si concede qualche scherzo. E prende un giorno, uno qualsiasi, e riempie quel giorno di fatti talmente contrastanti tra loro da far pensare davvero che se non c’è un Dio dell’universo allora è certo che uno sconosciuto che magari chiamiamo fato architetta ogni dettaglio per prenderci per il culo.

Oggi è il 15 di agosto, 75 anni fa si chiudeva la pagina più triste della storia dell’uomo. L’imperatore Hirohito annunciava la resa incondizionata del Giappone ponendo di fatto fine alla seconda guerra mondiale. Quell’uomo che in patria era venerato e indiscutibile come un Dio comprese che esisteva una divinità ancora più forte e stava dall’altra parte dell’oceano. Si chiamava bomba H, miscela che l’uomo – ce lo ricorda sempre la storia – sganciò solo nei tristi giorni di Hiroshima e Nagasaki. E poi non ce ne fu più bisogno perché fu a tutti chiaro che una terza guerra mondiale avrebbe portato alla distruzione del genere umano.

La resa del Giappone fu la linea di confine e l’inizio di una nuova era, civile e militare. Da quelle parti rappresentò anche la caduta di una certezza: Hirohito evitò con saggezza lo sterminio prolungato della sua gente, finalmente ne azzeccò una direbbero gli analisti del ‘900 dopo aver spalleggiato lo scriteriato asse italo germanico in quella follia militare che rischiò di cambiare i connotati al mondo. Però ebbe pietà di sé e del suo popolo e gliene va dato atto.

E cosa accadde di più diverso e segnante della seconda guerra mondiale il 15 agosto? Facciamo un balzo in avanti di 24 anni e dal 1945 planiamo sul 1969. A Bethel, in quell’arida e sconosciuta campagna dello stato di New York, cominciava una kermesse che avrebbe cambiato la storia della musica e non solo, l’iconico raduno simbolo della cultura hippie, il festival dei festival. Cominciava la quattro giorni di Woodstock. Non esiste appassionato di musica al mondo che se potesse avviare la macchina del tempo non sceglierebbe il 15 agosto del 1969 per compiere questo viaggio, lisergico e rockettaro all’insegna del peace&love che allora coinvolse mezzo milione di persone. E durante il quale, si stima, siano stati concepiti circa 2.000 bambini pensando a Joe Cocker o a Jimi Hendrix, a Ravi Shankar o a Joan Baez, a Carlos Santana o ai Canned Heat, a Janis Joplin, ai Creedence  e ai Grateful Dead, ai Who e ai Jefferson Airplane, a Crosby, Still, Nash&Young, solo per citare i fuoriclasse di una squadra che aveva in scaletta almeno altre 10 stelle di prima grandezza. Non c’erano i Beatles, già alle prese con le pratiche del divorzio e non c’erano neanche i Rolling Stones, per scelta, a conferma che la loro grandezza, la loro anima rock forse è argomento da mettere in discussione.

Pensando soprattutto a Woodstock noi, che il rock lo portiamo nel cuore e che abbiamo fatto più l’amore che la guerra, oggi abbiamo da santiare. Perché più passano i giorni e più questa orribile parola che si pronuncia loccdaun sembriamo meritarcela. Noi figli di un progresso finto e distruttivo e gemelli di un’insana voglia di bruciarci la vita in un tiro di dadi dimentichiamo troppo spesso il confine tra l’autolesionismo e l’attentato alla libertà altrui. E, come direbbe Gaber, questo non è rock, è da coglioni. Detto questo, con un pensiero pietoso al redento Hirohito, alziamo i calici alla salute del fratello Jimi e della divina Janis. Sono queste le nostre bombe H