“Del dottore Giovanni Falcone ricordo, a distanza di tanti anni, i pesantissimi faldoni che portava a casa dopo un’interminabile giornata di lavoro: per lui, che era infaticabile, l’impegno proseguiva senza sosta e senza orari”.
Poche semplici parole tratteggiano l’uomo e il magistrato.
Il ricordo è quello di un ex componente della scorta che preferisce rimanere anonimo, a fianco del giudice per tutto il corso dell’anno 1986.
“Era anche un uomo schivo e gentile con noi – prosegue – e molto affettuoso nei confronti della moglie”.
Onestà radicale, serietà, determinazione e un attaccamento al lavoro senza eguali.
“Le stesse qualità – ricorda l’ispettore della Polizia di Stato ormai in quiescenza da qualche anno – che animavano il lavoro dei miei colleghi uccisi con lui, in nome di ideali altissimi, ognuno per il ruolo che gli competeva”.
Giovanni Falcone, la consorte Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro sono morti il 23 maggio del 1992 nell’attentato mafioso di Capaci.
Di ricordi sulla stessa lunghezza d’onda emotiva dell’ex ispettore della Polizia di Stato, ce ne sono tanti. Ognuno brilla di una luce diversa, a seconda dell’angolo visuale di chi racconta.
Un elemento li accomuna: il riconoscimento dei metodi “moderni” inaugurati dal magistrato per combattere Cosa Nostra.
Carisma, forte personalità, pensiero profondo e ironia erano i tratti salienti dell’uomo e del giudice. Un convinto sostenitore della possibilità di battere la mafia attraverso percorsi partecipativi fondati sull’istruzione e l’autorevolezza dello Stato. Così come reputava fondamentale il contributo di ogni singolo individuo nell’affermazione della legalità.
Concreto e visionario al contempo, innovativo nell’approccio alle indagini, “predittivo” rispetto alle mosse dei boss.
Un concentrato di qualità umane e professionali riassumibili negli esiti delle confessioni del super pentito Tommaso Buscetta, che proprio lui convinse a collaborare. E fu grazie alle sue dichiarazioni che Giovanni Falcone riuscì a decifrare i codici della mafia, fino a quel momento oscuri a tutti gli investigatori. Di certo meno abili di lui a interagire con i criminali.
Sei elementi in tutto nel commando , tra i quali Giovanni Brusca: fu lui ad azionare il telecomando che fece saltare in aria i tredici bidoni pieni di esplosivo piazzati non lontano dallo svincolo di Capaci dell’autostrada A29.
La prima blindata del corteo, una Fiat Croma marrone, investita in pieno, finì in un giardino di ulivi a più di cento metri di distanza.
Gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo morirono sul colpo.
Nella seconda auto c’erano i coniugi Falcone – Giovanni era alla guida – e l’autista giudiziario, Giuseppe Costanza.
L’auto si schiantò contro il muro di detriti prodotti dall’esplosione.
Giovanni e Francesca non indossavano le cinture di sicurezza: l’impatto contro il parabrezza fu mortale. Giuseppe Costanza, seduto sui sedili posteriori, rimase invece leggermente ferito, come gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, a bordo della terza blindata del corteo, la Fiat Croma azzurra.
Chi offre la vita al destino e mette a rischio la propria incolumità a servizio dell’interesse collettivo è un eroe. Né più, né meno. E gli uomini della scorta di Giovanni Falcone, insieme ai loro colleghi morti per tutelare altri magistrati, eroi lo sono stati nel senso più ancestrale del termine. La gente li ricorderà sempre nella loro spericolatezza di uomini normali, ma consapevoli, attraverso i ricordi delle compagne, dei colleghi e di quanti li amarono. Era il 23 maggio del 1992 quando vennero strappati al futuro e ai loro sogni, amputati da un commando mafioso sull’autostrada.
La memoria, da sola, non basta; rischia semmai di diventare un esercizio sterile. Affinchè possa essere dinamica e proiettarsi nel futuro, deve vivere anche attraverso la parola scritta.
Ed è per questo che, a distanza di quasi trent’anni dall’orribile strage, per Giovanni Falcone è arrivato il riconoscimento forse più significativo.
Un regalo per gli ottantadue anni che avrebbe compiuto lo scorso 18 maggio.
A sessant’anni dalla laurea, la Treccani ha pubblicato la sua tesi dal titolo “L’istruzione probatoria nel diritto amministrativo” .
Il volume è curato da Gaetano Armao, docente di diritto amministrativo dell’Università di Palermo e vicepresidente della Regione Siciliana. L’introduzione porta la firma del ministro della Giustizia Marta Cartabia, presidente emerito della Corte costituzionale.
Un modo, anzi “il modo” per perpetuare il ricordo di un uomo di legge dalla brillante cultura giuridica, ricca di intuizioni già a partire dagli esordi.