Nel ventiseiesimo giorno di guerra, Kiev ha respinto la richiesta di Mosca di consegnare la città di Mariupol. “La resa non è un’opzione”, ha dichiarato la vicepremier Iryna Vereshchuk. Intanto, però, la città è allo stremo e circa 300mila persone sono ancora intrappolate lì, in una drammatica situazione. Da settimane Mariupol è senza gas, senza corrente, senza cibo e senz’acqua. «La Russia ─ ha detto alla Bbc Dmytro Gurin, un deputato ucraino originario di Mariupol ─ sta cercando di ridurre la città allo stremo. L’obiettivo dei russi è chiaramente iniziare a creare fame. Se la città non si arrenderà, e non lo farà ─ ha aggiunto il deputato ─ non consentiranno alle persone di lasciarla, e non consentiranno l’ingresso di convogli umanitari». Qualsiasi tentativo di fornire aiuti umanitari a Mariupol è infatti fallito.
Una residente, Nadezda Sukhorukova, nella sua pagina Facebook racconta cosa succede a Mariupol, come in un doloroso diario di guerra. Rilanciato da una giornalista del Kyiv Independent, Anastasiia Lapatina. Nadezda scrive di missili e bombe che hanno ormai distrutto esistenze e quartieri. «In questa città tutti aspettano la morte ─ si legge il 19 marzo ─. Sono sicura che morirò presto, questione di giorni, ma vorrei solo che la morte non fosse così spaventosa». A Mariupoll la vita è a pezzi da tre settimane. Neppure i cadaveri si possono quasi più seppellire. «Alla polizia abbiamo chiesto cosa fare del corpo senza vita della nonna del nostro amico e ci hanno consigliato di metterlo sul balcone».
«Quanti cadaveri ci saranno sui balconi di Mariupol?», scrive Nadezda Sukhorukova, ricordando come al papà del piccolo Sasha, Vitya, è andata peggio, Se c’è un peggio all’inferno. «Il cadavere di Vitya, morto nel bombardamento della sua casa, giaceva con la testa fracassata sul pavimento del suo appartamento al nono piano. Era impossibile recuperarlo: la casa è stata colpita ancora e ancora ed è bruciata assieme a quel corpo». Nessuna pietà per i morti ma ancor meno per gli abitanti di una città che da settimane, scrive Nadezda, «vive nel sottosuolo. Sopra c’è un silenzio da cimitero, non ci sono macchine, non ci sono voci, non ci sono bambini e nonne sulle panchine. Anche il vento è morto. Tutta la vita nella mia città ora borbotta nei sotterranei, non riesco a credere che avevo un tempo un’altra vita: ogni giorno è più difficile sopravvivere, non c’è acqua, cibo, luce».