Messina Denaro e l’attentato a Di Matteo: «Perché non viene lui a dircelo?»

Parla il neo pentito Geraci. Il boss D’Ambrogio era scettico sul via libera per l’attentato a Di Matteo dato dal latitante Messina Denaro con una lettera

Abbiamo già scritto del nuovo pentito Alfredo Geraci, che, poco dopo il suo arresto, ha iniziato a collaborare con i magistrati. Ha già raccontato degli interessi mafiosi a Ballarò, di alcune estorsioni nel centro storico, delle affari legati al contrabbando di sigarette. E poi anche di come si occupava di organizzare summit tra mafiosi di livello alto. In uno di questi incontri si è parlato dell’attentato al magistrato Di Matteo, all’epoca Pm di punta della procura di Palermo, che indagava sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Di questo summit ne ha parlato anche Vito Galatolo, un’ altro pentito, erede della storica famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Nel 2014 chiese di incontrare in carcere proprio Nino Di Matteo per raccontare il progetto di attentato preparato dai boss ai suoi danni. «Dottore – disse – i mandanti per lei sono gli stessi del dottore Borsellino».

GERACI FACEVA IL “PORTIERE”

Geraci in questa riunioni citate anche da Galatolo, non aveva il “rango” per partecipare. Il suo ruolo è stato quello di “portiere”: accoglieva i mafiosi convocati nell’appartamento di Ballarò. E racconta: «Un giorno mi chiamò Alessandro D’Ambrogio, il capo del mio mandamento mi disse che aveva bisogno di un locale dove fare una riunione. All’incontro c’erano Vito Galatolo, che scendeva da Venezia, Tonino Lipari, uomo del mandamento di Porta Nuova e referente di D’Ambrogio, Tonino Lauricella, responsabile della famiglia di Villabate, e Giuseppe Fricano. Misi a disposizione la casa della sorella di mio suocero, un appartamento al secondo piano a Ballarò. Io rimasi giù per aprire il portoncino a chi arrivava«.

L’ATTENTATO LO VOLEVA MESSINA DENARO

In quel summit si doveva decidere l’attentato a Di Matteo. Secondo quello che tempo fa ha raccontato l’altro pentito Galatolo nelle sue esternazioni, era stato proprio Messina Denaro a chiederlo con una lettera indirizzata ai mafiosi di Palermo. Perché a suo modo di vedere, “Di Matteo sia era spinto troppo avanti”. Quelli erano i mesi in cui il capo dei capi Totò Riina lanciava minacce di morte al magistrato direttamente dal 41 bis, mentre le indagini sulla Trattativa erano a un giro di boa. Galatolo aveva raccontato anche che per assassinare Di Matteo, Cosa nostra aveva acquistato 150 chili di esplosivo provenienti dalla Calabria. Dopo aver trovato il tritolo, però, i boss contattarono Messina Denaro spiegando di non essere in grado di confezionare l’ordigno esplosivo ad alto potenziale. Dal boss di Castelvetrano però era arrivata una rassicurazione. “Non c’è problema”, avrebbe scritto Messina Denaro, perché al momento opportuno, ai boss sarebbe stato messo a disposizione “un artificiere”.

LA VERSIONE DI GERACI

Ma Alfredo Geraci ha un’altra ricostruzione sull’attentato contro il sostituto procuratore Nino Di Matteo, attualmente consigliere del Csm. Afferma che il suo capo, Alessandro D’Ambrogio, boss di Ballarò, non avrebbe mai creduto all’esistenza di una lettera inviata dal latitante Matteo Messina Denaro per progettare l’agguato ai danni del magistrato. Ecco cosa ha riferito Geraci ai magisyìtrati: «In una cena in una trattoria, dove c’ero io, Nino Ciresi e Antonino Serenella, Alessandro D’Ambrogio ci ha raccontato di una riunione in cui si discorreva dell’attentato al procuratore Di Matteo, richiesto in una lettera arrivata da Matteo Messina Denaro che Girolamo Biondino gli aveva fatto leggere. D’Ambrogio a riguardo diceva di essere scettico sull’effettiva provenienza di tale lettera e di non concordare su tale attentato in particolare affermando “se vuole l’attentato perché non viene lui a dircelo?”».