La Cassazione ha condannato definitivamente all’ergastolo i quattro boss di Cosa Nostra accusati di aver fatto parte dell’organizzazione della strage di Capaci dove il 23 maggio del 1992 persero la vita giudice Giovanni Falcone, la moglie e i tre agenti della scorta. I condannati sono Salvatore Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello. Assolto in maniera definitiva invece Vittorio Tutino.
Respinti quindi tutti i ricorsi della difesa, ma resta il dubbio sull’assoluzione di Tutino soprattutto da parte della Procura della Cassazione rappresentata dalla Pg Delia Cardia che ha sempre sostenuto dopo la prima sentenza di “esserci stata una caduta totale di logicità nel metodo utilizzato, si è seguito un percorso tutto di facciata”. Il giudice Cardia sottolinea di come ci sia stata “una omessa valutazione di materiali decisivi e probatori sull’attivismo di Tutino anche nella strage di Milano. Le sentenze di Firenze dimostrano la probabile partecipazione a tutti gli attentati, data la caratura del personaggio, uomo di fiducia di Graviano”.
Per il Pg Cardia si dovrebbe fare un nuovo processo a Tutino, ma la Cassazione ormai ha deciso per l’assoluzione definitiva.
“La sentenza della Cassazione, che conferma l’imponente lavoro investigativo fatto dalla Procura coordinata da Sergio Lari e le condanne inflitte dai giudici di Caltanissetta ai boss Salvatore Madonia, Lorenzo Tinnirello, Giorgio Pizzo e Cosimo Lo Nigro, accerta pienamente le responsabilità di Cosa nostra nella fase esecutiva della strage di Capaci, sancendo in via definitiva il ruolo del mandamento mafioso di Brancaccio”. Queste le parole di Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni, a commento della sentenza della Cassazione.
“Questo verdetto – ha aggiunto Maria Falcone – apre allo scenario della convergenza di interessi nell’attentato, prospettato nella sentenza della Corte d’Assise, sulla base di due elementi accertati dai magistrati: il “sondaggio” che, ha raccontato il pentito Giuffrè, venne fatto da cosa nostra presso ambienti politici e imprenditoriali prima dell’attentato e il diktat di Riina che, a marzo del 1992, disse ai suoi di fermare la missione romana che avrebbe dovuto eliminare Giovanni Falcone perché a Palermo “c’erano cose più importanti da fare”. Elementi che fanno pensare appunto a una convergenza di ambienti esterni alla mafia nell’interesse ad uccidere Giovanni”. L’obiettivo adesso è che “su questa strada si possa fare piena chiarezza sia sulla strage di Capaci che su quella di Via D’Amelio che tanti punti oscuri ancora presenta”.