Niceta, un impero distrutto da una misura di prevenzione: “Non credo più nello Stato”

L’intervista a Massimo Niceta, imprenditore palermitano colpito nel 2013 da una misura di prevenzione che ne ha distrutto l’intero patrimonio

Niceta

E’ la storia di uno scandalo quella dei Niceta, una vicenda che ancora oggi suscita non poche domande. Non si tratta, purtroppo, di un caso unico nel suo genere. Per questa ragione, insieme a Pietro Cavallotti – anche lui parte di una famiglia di imprenditori atterrata da una misura di prevenzione – oggi Massimo Niceta porta avanti una battaglia per introdurre modifiche alla legislazione vigente sul tema.

“Siccome amiamo fare e non lamentarci solo per il gusto di farlo, con i radicali prima e ora con il gruppo di Forza Italia, che ha depositato un ddl, stiamo cercando di introdurre delle modifiche. Non è possibile che lo Stato prima ti levi tutto senza motivo, te lo faccia fallire per incuria degli amministratori e poi ti restituisca una scatola piena di debiti. E’ una partita truccata. Non puoi uscirne vivo e più a lungo dura più i danni sono grossi”. A parlare così a Palermo Live è proprio Massimo Niceta.

Una nuova avventura con un doloroso passato

L’imprenditore ha recentemente intrapreso una nuova avventura a Palermo con il “Niceta padel point” in via Marchese di Villabianca. Un capitolo che, però, non poteva non risentire di un così gravoso passato. “Sono le difficoltà che ti piovono addosso dopo una misura di prevenzione. Indipendentemente dal fatto che tu sia una persona onesta o meno”, commenta Niceta. E’ lunga e articolata la panoramica di quanto accaduto a seguito del sequestro del patrimonio sotto l’ombra delle accuse di collusione con la mafia.

Si parte dall’operato degli amministratori giudiziari. “Sono per legge autorizzati a non pagare i debiti pregressi. Nel frattempo, corrono rate di leasing, mutui, prestiti, finanziamenti e quant’altro. Loro non pagano pur sfruttando i servizi. Nel nostro caso c’erano dei leasing per arredi dei negozi: non hanno pagato le rate ma hanno continuato a sfruttare gli arredi. Quando la società di leasing ha chiesto indietro i beni per chiudere la partita, l’amministratore giudiziario ha fatto orecchie da mercante. Si è aperta una pratica, ma la procedura esecutiva durante l’amministrazione giudiziaria non può essere portata a termine, quindi si sospende tutto. Nel momento in cui ci è stata restituita l’azienda, fallita, la procedura esecutiva intentata dalla società di leasing si è rivolta contro di noi“.

Oltre al danno la beffa, si potrebbe commentare. Ma Massimo Niceta prosegue. “Siamo stati iscritti in tutte le centrali rischi del mondo. In più, ad accrescere il danno, esiste una società che si chiama Word check che fa raccolta dati su internet e crea dossier sulle persone; vi attingono soprattutto le banche. Il mio dossier parla di “continuo alla mafia”. E’ chiaro che quando una banca lo vede, mi ride in faccia se mi presento per un prestito”.

Niceta a Palermo

Ma cos’era un tempo Niceta a Palermo? “Per tanto tempo se lavoravi da Niceta era come se fossi un dipendente pubblico. Godevamo di grande stima da parte dei lavoratori. E’ capitato anche che qualcuno sia andato a lavorare altrove e poi sia ritornato. Era bello”. Imprenditori da generazioni, dopo il fallimento del padre, nel 1997, legato a difficili condizioni di salute, Massimo, Piero e Olimpia erano riusciti a reinserirsi nel mondo degli affari. Una nuova srl, quindi, e tanto lavoro fino ad avere 15 negozi e circa 100 dipendenti.

“Molti erano dipendenti di mio nonno e di mio padre. Tanti si sono sposati e lavoravano da noi sia il marito che la moglie. Niceta non era solo un’azienda economica fredda, era un posto dove c’erano delle tradizioni che si sono tramandate. Ancora oggi persone mi incontrano e mi dicono: “Il corredo l’abbiamo comprato da voi””.

Poi l’ormai famoso pizzino che nomina “‘Massimo N.”. Nel 2009 sulla famiglia Niceta piovono le accuse di legami con la mafia attraverso la persona di Francesco Guttadauro, figlio di Filippo e nipote di Matteo Messina Denaro. Questi lavorava in un punto vendita a Castelvetrano.

“Io che dovrei esservi citato, non l’ho mai visto questo pizzino – spiega Massimo Niceta -. Non sono mai stato sentito dalla Procura, dalla magistratura. Né io né i miei familiari. Sebbene avessimo scritto una lettera alla Procura nella quale manifestavamo disponibilità a qualunque tipo di chiarimento o confronto. Eravamo disponibili per ascoltare ed essere ascoltati. E’ una cosa che mi fa paura”.

Dopo un anno e mezzo dalla notifica, l’avviso di garanzia fu archiviato. Tuttavia, sulla base degli stessi elementi nel 2013 si è proceduto al sequestro dell’intero patrimonio. “E’ evidente che qualcosa non quadra – sottolinea Massimo Niceta -. Se da un lato si ritiene che non ci sia neanche la necessità di un rinvio a giudizio, non si può, sulla base degli stessi identici elementi, sequestrare l’intero patrimonio”.

“Una caccia alle streghe”

Da lì una lunga serie di vicissitudini che ha visto, da un lato, la famiglia Niceta doversi difendere dall’accusa di rapporti con la mafia e di non liceità del patrimonio e, dall’altro, i punti vendita via via chiudere.

È una caccia alle streghe da cui difficilmente ci si può difendere e nella quale facilmente puoi essere colpito”. Così l’imprenditore lo descrive, sottolineando la difficoltà di giustificare operazioni finanziare effettuate magari dal padre o dal nonno molti anni prima. “Tra l’altro in un periodo storico in cui non era obbligatoria la tracciabilità come oggi, in cui non c’erano le stesse norme”.

I Niceta sono riusciti, alla fine, a dimostrare la bontà del loro patrimonio, ma ad un prezzo altissimo. “Abbiamo riscontrato che in troppe misure di prevenzione si parte dicendo che l’imprenditore è vicino alla mafia e poi in tanti casi – non dico in tutti, attenzione – non ce n’è neanche l’odore”.

“La mafia c’è e va combattuta, ma non sono questi i mezzi – aggiunge -. Questi sono mezzi per fare arricchire amministratori giudiziari, periti, curatori, dipendenti che loro assumono. Da noi sono entrate 27 persone, stipendiate da noi. E’ chiaro che le aziende non ce la possono fare”.

“Lo Stato aveva il dovere di riequilibrare la situazione”

Alla domanda se crede ancora nello Stato e nella giustizia, Massimo Niceta non ha dubbi. Il suo no è secco, deciso e ripetuto. “Io e Pietro Cavallotti non abbiamo chiesto di essere risarciti, seppure dovrebbe essere così – argomenta -. Abbiamo chiesto solo allo Stato di creare un fondo per imprese e imprenditori che vengono fuori da una misura di prevenzione e sono falliti o comunque impossibilitati all’accesso al credito. E’ stato bocciato l’emendamento legge. Ora si è depositato un ddl. Per questo io non ci credo più. Lo Stato aveva il sacrosanto dovere almeno di rimetterci nelle condizioni di fare impresa. Tutta questa situazione è stata condita dallo scandalo Saguto, quindi non è che ce lo siamo inventato”.

“Non credo neanche a tutte le varie istituzioni che avrebbero dovuto tutelare l’interesse del commerciante né ai sindacati – conclude Niceta, rincarando la dose -. Nessuno si è permesso di prendere le difese dell’imprenditore perché c’è di mezzo la parola “mafia”. E’ grave, perché avrebbero dovuto difendere non Massimo Niceta ma il diritto d’impresa”.

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