“Il calcio è un gioco semplice: ventidue uomini rincorrono un pallone per novanta minuti, e alla fine la Germania vince”. La frase, famosissima, è dell’ex attaccante dell’Inghilterra Gary Lineker, ma se volessimo trasferirla al tennis, suonerebbe: “Il tennis è un gioco semplice: due uomini giocano con una racchetta e una pallina, e alla fine Djokovic vince” . Lo ha fatto ancora Novak Djokovic, ha scritto per la settima volta (la quarta consecutiva) il suo nome nell’albo d’oro del torneo di Wimbledon, eguagliando il numero di successi di William Renshaw e Pete Sampras, e giungendo a una sola vittoria dal record assoluto di Roger Federer. Lo ha fatto in un momento molto delicato della sua carriera, dopo il Grande Slam perso a settembre scorso agli US Open e le polemiche seguite alla mancata partecipazione all’Open d’Australia per la sua posizione adamantina contro la vaccinazione anti-Covid.
È il ventunesimo titolo Slam per Nole su trentadue finali giocate, numeri che fanno capire quanto il serbo sia già e resterà per sempre nell’Olimpo della storia del tennis. E se permettete una nota campanilistica, il fatto che sia stato proprio Jannik Sinner l’avversario che più ha messo a rischio la sua vittoria sui campi londinesi, ci riempie di orgoglio e ci dice che l’azzurro è sulla strada giusta per diventare un grande di questo sport.
Ci ha provato Nick Kyrgios – arrivato in finale grazie a un torneo sorprendente e al “bye” in semifinale per l’infortunio di Rafa Nadal – a mettere i bastoni tra le ruote a Nole, ma dopo un primo set praticamente perfetto, l’australiano ha dovuto fare i conti con due avversari: il prepotente ritorno di Djokovic e soprattutto se stesso. Non sapremo mai cosa avrebbe potuto fare in carriera Kyrgios se avesse avuto un altro carattere, ma nello sport capita a volte che il genio di un atleta (e di genio Nick ne ha a iosa) non possa essere scisso dalla sua sregolatezza. Glielo ha riconosciuto lo stesso Nole, che alla fine ha detto: “Tu tornerai qui Nick, non solo a Wimbledon ma in una finale slam”.
Dicevamo dunque del primo set, deciso da un break per Kyrgios al quinto game, e giocato dall’australiano in costante spinta sui colpi di Djokovic, incapace dal canto suo di trovare continuità negli scambi. Qui usciva la grande attitudine del serbo a risalire in situazioni come queste. Nel secondo set infatti Nole ritrovava tutta la sua solidità, strappando il servizio a Kyrgios al quarto gioco e non concedendo nemmeno una palla break all’avversario.
Sulla situazione di un set pari Kyrgios iniziava il proprio show personale, continuando a lamentarsi con il suo angolo e con il giudice di sedia, reo a suo dire di non tenere in silenzio il pubblico durante i suoi turni di servizio. Il terzo parziale però procedeva equilibrato fino al nono gioco, il game forse chiave del match. Qui Kyrgios si faceva rimontare sul suo servizio da 40-0 fino al break decisivo, che regalava poi a Djokovic la terza frazione.
Si arrivava così al quarto set, il più equilibrato della finale perché senza break, concluso da Djokovic con un tie-break praticamente perfetto. Alla fine il risultato è stato 4-6 6-3 6-4 7-6(3) in tre ore e quattro minuti di gioco.
Dulcis in fundo il tradizionale cerimoniale a cui Djokovic ci ha abituati: chinarsi in ginocchio sul prato del centrale, strappare un piccolo ciuffo d’erba e mangiarlo. Si potrebbe parlare di delitto di lesa maestà, anche di fronte ai Reali d’Inghilterra, ma a “giustificare” il vincitore è arrivato lo stesso Kyrgios, che alla fine ha detto: “Nole su questo campo è una specie di Dio”.